Titolo:
Mi chiamo Lucy Barton
Autrice:
Elizabeth Strout
Editore:
Einaudi
Anno: 2016 (edizione originale 2016)
Traduzione:
Susanna Basso
Stelle:
4 su 5
Pagine: 161
In due parole: flusso di coscienza in tono minore, confessione o riflessione dolente su un'infanzia desolante
Ad una lettura superficiale questo breve romanzo potrebbe sembrare strordinariamente esile, troppo esile ed in effetti non ha una trama complicata: Lucy è ricoverata in ospedale in seguito alle complicazioni seguite all'operazione di appendicite, si sente sola, è spaventata, le mancano suo marito e le sue figlie, inaspettatamente arriva sua madre che non vedeva ormai da anni e per cinque giorni e notti non faranno altro che parlare, non di sé ma di altri. Da questo e da altri episodi emergerà una infanzia desolante, dolorosa e poverissima. Lucy diventerà una scrittrice e questo che scrive, più che un'autobiografia è una riflessione sul proprio passato e sull'amore che, nonostante il dolore e i traumi, prova per sua madre e la sua famiglia. L'impressione è che Strout abbia tolto invece di aggiungere ma, dopo aver chiuso il libro, ci si rende conto che non c'era altro modo per raccontare la storia di Lucy Barton.